Camillo Sbarbaro è, nel panorama poetico del Novecento, un autore a torto sottovalutato, perchè la sua opera è in parte "oscurata" dalla presenza ingombrante della cosiddetta triade novecentesca, costiutita da Saba, Ungaretti e Montale.
L'opera di Sbarbaro presenta inoltre caratteristiche molto particolari e singolari, tali da configurare il poeta come una personalità a sè nel mondo poetico novecentesco, difficilmente inquadrabile in un ambito predefinito.
Il critico letterario Carlo Bo fu uno dei primi a riconoscere l'importenza del poeta, infatti nel 1938 egli scrisse un saggio intitolato "Il debito con Sbarbaro", in cui afferma che molti autori del Novecento hanno "imparato a scrivere" attraverso lo studio dello stile letterario sbarbariano.
In particolare la poesia di Sbarbaro influenzò moltissimo l'opera del Montale degli Ossi di seppia, anche perchè i due poeti sono entrambi di origine ligure e descrivono con la massima precisione le caratteristiche del paesaggio della Liguria, visto come simbolo di una condizione esistenziale di aridità.
La raccolta poetica più nota di Camillo Sbarbaro si intitola "Pianissimo" ed esce a Firenze nel 1914: bisogna tener presente che Sbarbaro collaborò per anni alla rivista fiorentina "La Voce", rivista che per più di un decennio (dal 1903 sino al 1915) contribuì alla diffusione della letteratura italiana attraverso la pubblicazione di poesie e racconti.
L'opera di Sbarbaro, tuttavia, rappresenta un'importante eccezione all'interno del gruppo di letterati che gravitavano attorno alla rivista "La Voce": gli intellettuali di quel gruppo, infatti, si caratterizzano per l'impiego uno stile letterario molto espressivo e soprattutto aristocratico, con forte energia lessicale ed uso frequente di metafore e licenze poetiche.
Camillo Sbarbaro, invece, usa spesso un linguaggio colloquiale e diretto, tendente alla prosa e con uno scarso uso delle figure retoriche.
Ecco la poesia che introduce tutta la raccolta "Pianissimo" e che rappresenta una specie di manifesto dell'intera produzione di Sbarbaro.
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all'uno e all'altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d'ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d'una rassegnazione disperata.
Noi non ci stupiremmo
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato.......
Invece camminiamo.
Camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioja e dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
La poesia introduttiva alla raccolta "Pianissimo" riprende un tema ricorrente della poesia romantica dell'Ottocento: il poeta si rivolge alla sua anima ( vedere l'esempio di Leopardi nella lirica "A se stesso") e inizia a guardarsi dentro.
Questa lirica anticipa i temi ricorrenti nella raccolta"Pianissimo": l'aridità della vita, la sensazione che la realtà non abbia più nulla da comunicare ai poeti, la rassegnazione alla noia esistenziale.
Il mondo, per Sbarbaro, non è affatto una "foresta di simboli" come affermavano i decadentisti dell'Ottocento; al contrario è un luogo monotono, sempre uguale a se stesso, in cui il poeta è incompreso e non può far altro che rassegnarsi ad una condizione di emarginazione sociale.
Lo stile di questa poesia, come di molte altre liriche, è piuttosto vicino alla prosa, è colloquiale e diretto:in questo si può notare una certa influenza esercitata su Sbarbaro dai poeti crepuscolari, che d'altra parte affrontavano le stesse tematiche:l'emarginazione sociale del poeta, la descrizione di una vita provinciale monotona e ripetitiva., il senso di solitudine e di incomunicabilità.