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20 agosto 2015 4 20 /08 /agosto /2015 14:43

Il tema della sofferenza e della ricerca della verità è uno dei cardini della poesia di Ungaretti.

Il poeta, nato ad Alessandria d'Egitto nel 1888, si è spesso scontrato con le difficoltà e perfino le brutalità della vita: egli fu dapprima un convinto interventista ai tempi della prima guerra mondiale, salvo poi scoprire al fronte l'inutilità e le atrocità del conflitto. Il tema del dolore è quindi costantemente presente nella prima raccolta poetica di carattere autobiografico ("Allegria di naufragi", 1919) ed è intimamente legato alla solidarietà che accomuna i soldati al fronte, paragonati a fragili foglie che possono cadere ad un minimo soffio di vento (" Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie").

La parola poetica, in questa prima raccolta, è decisamente essenziale e l'intero testo è spesso composto da poche frasi o addirittura da un verso; in compenso, però, Ungaretti sceglie le parole che descrivono meglio la propria condizione esistenziale, molto spesso forzando i normali legami logici tra le immagini, come accade nel frammento "M'illumino d'immenso".

La rottura dei legami sintattici e logici tra le cose prosegue poi nella seconda raccolta, intitolata "Sentimento del tempo" (1933): questa silloge è in assoluto la più vicina alla lirica ermetica, come si può notare dall'impiego insistente dell'analogia, dall'abolizione delle congiunzioni (in particolare del "come") e dall'uso costante della terza persona singolare, che conferisce un senso di forte indeterminatezza alla frase.

Il tema della sofferenza riemerge poi in modo prepotente con la raccolta "Il dolore" (1947), divisa in due parti distinte ma complementari: nella prima Ungaretti descrive l'immensa sofferenza derivata dalla morte del figlio, scomparso a soli nove anni per una peritonite; la seconda parte, invece, descrive le sofferenze causate dalla seconda guerra mondiale su una popolazione ormai completamente provata e incapace di sperare in un riscatto.

La lirica che introduce la raccolta descrive in modo toccante e magistrale lo stato d'animo del poeta di fronte al dramma della morte del figlio.

Ecco il testo:

"Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto..."
E il volto già scomparso
Ma gli occhi ancora vivi
Dal guanciale volgeva alla finestra,
E riempivano passeri la stanza
Verso le briciole dal babbo sparse
Per distrarre il suo bimbo...

2.
Ora potrò baciare solo in sogno
Le fiduciose mani...
E discorro, lavoro,
Sono appena mutatotemo, fumo...
Come si può ch'io regga a tanta notte?...

3.
Mi porteranno gli anni
Chissà quali altri orrori,
Ma ti sentivo accanto,
M'avresti consolato...

4.
Mai, non saprete mai come m'illumina
L'ombra che mi si pone a lato, timida,
Quando non spero più
...

5.
Ora dov’è, dov’è l’ingenua voce
Che in corsa risuonando per le stanze
Sollevava dai crucci un uomo stanco?
La terra l’ha disfatta, la protegge
Un passato di favola

6.
Ogni altra voce è un’eco che si spegne
Ora che una mi chiama
Dalle vette immortali….

7.
In cielo cerco il tuo felice volto,
Ed i miei occhi in me null'altro vedano
Quando anch'essi vorrà chiudere Iddio...

8.
E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!...

10.
Sono tornato ai colli, ai pini amati
del ritmo dell'aria il patrio accento
Che non riudrò con te,
Mi spezza ad ogni soffio..

13.
Non più furori reca a me l'estate,
Né primavera i suoi presentimenti;
Puoi declinare, autunno,
Con le tue stolte glorie:
Per uno spoglio desiderio, inverno
Distende la stagione più clemente!...

Nella prima strofa Ungaretti riporta le parole del figlio, che ha sul volto i segni della morte imminente ("Il volto già scomparso"), ma ha uno sguardo ancora pieno di vita.

Nella seconda strofa, invece, il poeta è costretto a confrontarsi con la tragedia della morte e con la necessità (ancora più drammatica) di continuare la vita di sempre per non soccombere; nonostante Ungaretti continui a svolgere le stesse attività di sempre, egli ha dentro di sè un vuoto che si può esprimere con l'immagine del buio ( "Come si può ch'io regga a tanta notte?").

Il testo prosegue rievocando immagini del passato, il ricordo infatti è l'unica arma per proteggere dall'oblio i momenti gioiosi legati alla presenza del figlio: l'amore che il poeta prova per lui non fa però che accrescere la disperazione, il cuore si schianta nel dolore ("E t'amo, e t'amo, ed è continuo schianto").

Il confronto tra la situazione del figlio, ormai defunto, e la vita che continua ricorda la sofferenza di Carducci in "Pianto antico", al punto che Ungaretti considera la stagione più clemente l'inverno, poichè una natura spoglia sembra più rispettosa del suo dolore.

 

 

 

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13 giugno 2015 6 13 /06 /giugno /2015 16:07

La Ginestra rappresenta l'ultima grande lirica di Leopardi: essa chiude la raccolta dei Canti ed assume un valore quasi testamentario, come se l'autore avesse voluto attraverso di essa consacrare la sua opera e racchiuderne tutto il messaggio.

La lirica appartiene al periodo napoletano della vita di Leopardi, negli anni in cui egli era ospite dell'amico Antonio Ranieri che contribuì a pubblicare molte delle sue opere: lo spunto della poesia venne forse a Leopardi dalla lettura del testo "Rosa del deserto" del poeta spagnolo N. Alvarez de Cienfuegos (1764-1809), che apparve in un periodico napoletano nel 1835.

Tutta la poesia si basa sostanzialmente sul conflitto esistente tra l'uomo e la natura: quest'ultima è vista come una forza oscura che distrugge i progetti e i desideri dell'uomo, e lo fa in modo improvviso e crudele. La natura selvaggia e ostile è simboleggiata dal vulcano Vesuvio che, come Leopardi ricorda nella lirica, durante l'eruzione del 79 D. C. distrusse le città di Pompei ed Ercolano cancellando in un solo attimo un'intera civiltà ( "Questi campi cosparsi di ceneri infeconde.................... fur liete ville e colti, fur giardini e palagi, agli ozi de'potenti gradito ospizio"). Leopardi sottolinea come una volta il vulcano era abitato e palpitante di vita, c'erano ville, palazzi lussuosi dove i nobili romani si riposavano e vivevano nei piaceri, tuttavia è bastato un attimo affinchè la natura cancellasse un pezzo di umanità.

Questa constatazione diventa poi lo spunto per una riflessione importantissima, che racchiude tutto il senso della lirica: Leopardi afferma infatti che "Dipinte in queste rive son dell'umana gente le magnifiche sorti e progressive" (versi 47-50 della Ginestra).

Questi versi esprimono una profonda sfiducia nelle possibilità dell'uomo di passare da una condizione di sottomissione alla natura (e agli eventi fortuiti) alla piena padronanza di se stesso e del mondo: per quanti sforzi si facciano, è sufficiente un'eruzione vulcanica o un terremoto catastrofico per distruggere anche la civiltà più progredita.

In questo contesto Leopardi mette in discussione la superbia tipica degli intellettuali illuministi, che credevano ciecamente nel progresso e ritenevano che la ragione potesse avere un potere assoluto sulla natura per dominarla a proprio vantaggio: la libertà che l'Illuminismo sogna è solo un'illusione e, oltretutto, finisce per imprigionare il pensiero stesso in una serie di teorie considerate come verità assoluta.

Nonostante questo pessimismo, nella Ginestra Leopardi cerca faticosamente una via d'uscita dalla tragicità della condizione umana, cerca disperatamente un senso che possa dare valore all'esperienza dell'uomo sulla Terra; questo significato viene individuato nella solidarietà di tutti gli uomini contro la natura ostile, contro tutto ciò che minaccia la sopravvivenza umana e la sua felicità.

Per Leopardi, quindi, le persone devono mettere da parte gli istinti egoistici che da sempre le dividono e costruire una rete di solidarietà ("social catena") basata sull'aiuto reciproco: il poeta afferma che è stata proprio l'ostilità dell'ambiente a far nascere in tempi antichissimi la società, proprio perchè l'uomo singolo si rende conto che assieme agli altri può fronteggiare meglio i pericoli comuni.

Questa solidarietà è simboleggiata proprio dalla ginestra che, nonostante sia costretta spesso a piegare il capo di fronte alla lava del Vesuvio sterminatore, continua a vivere, superando ogni ostacolo con eroica determinazione.

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29 marzo 2013 5 29 /03 /marzo /2013 14:05

Il canto XV dell'Inferno è uno dei più importanti e discussi della Divina Commedia e si focalizza su due tematiche fondamentali:l'incontro tra Dante e il letterato Brunetto Latini (definito da Dante come "il suo maestro") e la polemica contro la corruzione del comune di Firenze.

Dante e Virgilio camminano lungo gli argini del fiume infernale Flegetonte e sono ormai giunti,lasciandosi alle spalle la selva dei suicidi,al cosiddetto sabbione infernale, un grande deserto infuocato in cui sono puniti i bestemmiatori, i sodomiti e gli usurai.

La pena a cui sono sottoposti i sodomiti consiste nel camminare sulla sabbia infuocata e nello stesso tempo nell'essere investiti da una continua pioggia di fuoco: i peccatori sono divisi in schiere ben distinte ed i gruppi non possono mescolarsi tra di loro. I dannati sono costretti a ripararsi in continuazione per evitare le scaglie di fuoco che li colpiscono incessantemente e se si fermano per un solo istante sono poi costretti per cento anni a rimanere supini sul sabbione senza poter ripararsi dalla pioggia di fuoco.

E' opportuno notare come Dante ricorra ad una vera e propria onomatopea per riprodurre nei versi il concetto di "fiamma che guizza e brucia", che indica la pena dei dannati sottoposti al fuoco infernale.

Ecco le terzine:

 

Quale i Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia

tenendo il fiotto che 'nver' lor s'avventa

fanno lo schermo perchè il mar si fuggia;

e quale i Padovan lungo la Brenta,

per difender lor ville e lor castelli

anzi che Carentana il caldo senta;

a tale immagin eran fatti quelli,

tutti che nè sì alti nè sì grossi

qual che si fosse, lo maestro felli.

 

Dante descrive gli argini del fiume Flegetonte, assai simili alle famosissime dighe che gli Olandesi e i Belgi (Fiamminghi) avevano costruito per strappare faticosamente al mare la terra; ma in realtà il poeta nei primi versi non fa altro che riprodurre esattamente il concetto di "fuoco che guizza e brucia", per introdurre il lettore alla situazione descritta.

Successivamente Dante presenta il tema centrale del canto:l'incontro con Brunetto Latini, che era stato il maestro di retorica di Dante.

Brunetto Latini fu un importante uomo politico, letterato e notaio molto in vista nella Firenze del Duecento. Egli era membro di una famiglia nobile appartenente alla fazione dei guelfi e,dopo la vittoria dei ghibellini nella battaglia di Montaperti (1260), Brunetto Latini abbandonò a Firenze e si rifugiò in esilio in Francia, dove continuò la sua attività di notaio.

Dopo il ritorno dei guelfi a Firenze nel 1267 egli ritornò in patria ed iniziò una carriera politica che lo portò nel 1287 a sedere nel Consiglio dei Priori (come poi fu per Dante) ed ebbe un ruolo molto importante anche nella temporanea pacificazione nel 1280 tra guelfi e ghibellini.

Fu maestro di retorica ("l'arte della parola") di Dante e, sicuramente, i due letterati condividevano molti ideali politici essendo entrambi appartenenti alla fazione dei guelfi; Dante paragona l'influenza del Tesoretto di Latini sulla sua opera a quella di poeti come Guittone e Bonagiunta.

A questo punto sorge spontanea una domanda: perchè Dante decide di mettere Brunetto Latini tra i dannati nonostante la stima che almeno in apparenza egli prova per lui?

E' opportuno notare un fatto significativo: Dante nel Purgatorio non condanna in maniera eccessivamente pesante l'omosessualità, infatti nel canto XXV i sodomiti sono accomunati agli eterosessuali nello stesso cerchio dei lussuriosi, quasi a voler affermare che il vero peccato consista più nell'incontinenza (lussuria) che nell'orientamento sessuale in sè;inoltre è bene ricordare come nella Firenze del Duecento la sodomia fosse piuttosto tollerata nei rapporti tra docente/discente (condizione simile alla Grecia antica), le leggi che a Firenze punirono l'omosessualità con la morte erano infatti posteriori all'epoca di Dante.

L'omosessualità di Brunetto non era inoltre un fatto di dominio pubblico nella Firenze duecentesca e solo recentemente i dantisti hanno scoperto l'esistenza di un carteggio amoroso tra il letterato e il poeta Bondie Dietaiuti.

Il motivo vero e principale della condanna dantesca dev'essere quindi un altro: se si analizza bene il colloquio tra Dante e Brunetto si nota come la personalità del letterato sia particolarmente egocentrica, caratterizzata da una notevole superbia intellettuale; Brunetto Latini manifesta quindi un senso di superiorità che lo porta a sentirsi ingiustamente migliore degli altri e ad ergersi a giudice perfino dei dannati come lui!.

Infatti il maestro di Dante adopera parole di profondo disprezzo verso i compagni di sventura con cui di fatto condivide lo stesso destino: i dannati vengono definiti "lerci d'un peccato medesmo", "turba grama", "tigna", quasi come se Brunetto, accecato dalla superbia, non riconoscesse la presenza dello stesso male dentro di sè.

Di conseguenza Dante, pur provando un rispetto quasi reverenziale verso il proprio maestro,  non può inserirlo tra le anime salve, poichè la condizione essenziale per la salvezza è proprio l'umiltà di riconoscersi peccatori e bisognosi della grazia divina.

Brunetto Latini è il prototipo dell'uomo di cultura che ritiene di dover raggiungere la salvezza e l'immortalità con le proprie forze, mediante le effimere opere umane e non attraverso la fede; Dante vuole affermare proprio questo concetto quando dice che Brunetto sulla terra "gl'insegnava come l'uom s'etterna", diventa cioè immortale attraverso la gloria terrena.

Durante il colloquio tra Dante e Brunetto viene presentata una tremenda invettiva contro la città di Firenze, i cui abitanti vengono definiti con l'epiteto di "ingrato popolo maligno": Brunetto diventa qui l'alter-ego di Dante ed esprime attraverso il suo maestro il risentimento verso i fiorentini che lo hanno esiliato ingiustamente.

Ecco i versi dell'invettiva (vv 61-78) 

 

Ma quello ingrato popolo maligno

che discese di Fiesole ab antico

e tiene ancora del monte e del macigno

ti si farà, per tuo ben far, nemico;

ed è ragion, che tra li lazzi sorbi

si disconvien fruttare al dolce fico.

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;

gent'è avara, invidiosa e superba:

dai lor costumi fa che tu ti forbi.

La tua fortuna tanto onor ti serba

che l'una parte e l'altra avranno fame

di te; ma lungi fia dal becco l'erba.

Faccian le bestie fiesolane strame

di lor medesme, e non tocchin la pianta.

s'alcuna sorge ancora in lor letame,

in cui riviva la sementa santa

di que' Roman che vi rimasero quando

fu fatto il nido di malizia tanta"

 

I fiorentini sono definiti rozzi e malvagi, discendenti da quell'antico popolo di pastori (Fiesolani) che secondo Brunetto Latini avrebbe fondato Firenze:il popolo di Firenze è diventato nemico di Dante proprio a causa dell'imparzialità del poeta nel goverare la città, ma quel senso di giustizia ha fatto sì che Dante si alienasse le simpatie sia dei guelfi neri (già di per sè nemici) sia dei guelfi bianchi, partito a cui Dante apparteneva.

Non dimentichiamo che Dante aveva esiliato, nel periodo in cui era priore di Firenze, i capi più agguerriti delle opposte fazioni, allo scopo di pacificare il comune:ciò però gli attirò l'odio di molti fiorentini, al punto che il poeta affermò che "Tutti li mali e li inconvenienti miei dagli infausti comizi del mio priorato ebbero cagione e principio".

E'  necessario che Dante stia lontano da Firenze per non corrompersi ("dai lor costumi fa che tu ti forbi") e piuttosto deve lasciare che i fiorentini, divisi da tanto odio, si uccidano da soli e da loro stessi ricevano il giusto castigo.

Brunetto Latini preannuncia quindi a Dante l'esilio quando afferma che la fortuna del poeta sarà tale da tenerlo lontano dagli intrighi politici di Firenze (versi 70-72), si tratta quindi di una profezia post-eventum, come se ne trovano parecchie in tutto l'Inferno.

E' opportuno a questo proposito supporre come il maestro di Dante conoscesse bene le divisioni interne di Firenze e il prevalere dell'egoismo politico a discapito del bene comune; infatti egli più volte intervenne come Dante per cercare di pacificare le opposte fazioni.

Il canto continua poi con l'elenco degli altri dannati che si trovano nello stesso girone, anche se è giusto rilevare come tra i sodomiti siano inserite persone la cui omosessualità non è storicamente accertata e spesso nemmeno la vera identità; non è chiaro chi sia il grammatico Prisciano di Cesarea e il giurista Francesco d'Accorso fu forse ateo, ma non sodomita.

Dante conclude il canto presentando un Brunetto Latini che corre velocemente nel girone e lo paragona ad un atleta che vince una gara, ad indicare come, nonostante sia tra i dannati, egli sia comunque culturalmente e moralmente superiore alle altre anime con cui condivide lo stesso destino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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28 marzo 2013 4 28 /03 /marzo /2013 14:34

Il canto tredicesimo dell'Inferno è a mio giudizio il più affascinante di tutta la cantica e nello stesso tempo il più inquietante, sia per le situazioni evocate sia per lo stile che Dante stesso usa, uno stile poetico aspro, difficile e tortuoso, che ben si adatta alla materia trattata.

Siamo nel secondo girone del settimo cerchio, zona infernale in cui si puniscono i violenti e che è divisa in tre gironi, in cui si trovano rispettiavamente i violenti contro il prossimo, contro se stessi (suicidi e scialacquatori) e contro Dio, la natura e l'arte (bestemmiatori, sodomiti e usurai).

E' interessante notare come secondo Dante (e secondo la mentalità cattolica dell'epoca) il suicidio sia un peccato assai più grave dell'omicidio, poichè rappresenta un rifiuto totale della vita, vista come il più grande dono di Dio; inoltre si nota come anche gli scialacquatori abbiano la stessa pena dei suicidi, poichè distruggere il proprio patrimonio è una specie di suicidio e toglie dignità all'uomo.

La condanna senza appello del suicidio (e della violenza contro se stessi) deriva anche dalla concezione di San Tommaso d'Acquino, secondo cui l'amore autentico verso il prossimo presuppone come condizione essenziale l'amore verso se stessi;chi giunge al suicidio si trova quindi in una condizione di perdizione, in cui l'anima non ha più amore da dare, nè per sè nè per gli altri. 

Dante e Virgilio, guidati dal centuaro Nesso, giungono attraverso il fiume infernale Flegetonte (un fiume di sangue che simboleggia la violenza e il dolore) in una grande foresta, che è la selva dei suicidi;all'interno di ogni albero si trova un'anima imprigionata, costretta ad essere tormentata da mostri chiamati Arpie, che hanno il corpo di uccello e il volto umano. Tali mostri beccano le foglie degli alberi, ciò causa dolore ai dannati e dalle ferite escono continuamente dei terribili lamenti.

Le Arpie sono una reminescenza mitologica, poichè Dante si riferisce agli stessi mostri che cacciarono i troiani dalla Strofade, come si legge in un episodio del III libro dell'Eneide.

E' opportuno notare come nella pena dei suicidi (essere imprigionati in un albero e tormentati dalle Arpie) ci sia una sottile applicazione della teoria del contrappasso di Dante: chi si toglie la vita infatti abusa della propria libertà e si sostituisce a Dio (che solo può disporre della vita altrui), quindi ora per contrasto la sua anima è costretta a rimanere imprigionata in un albero, in balia di tutto e di tutti.

Vediamo ora i versi con cui Dante descrive il paesaggio infernale che incontra:

 

Non fronda verde, ma di color fosco; 

non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;

non pomi v'eran,  ma stecchi con tosco. 

  (versi 4-6)

 

  Questa terzina descrive con assoluta precisione il luogo spaventoso in cui Dante e Virgilio si trovano, un posto che è forse il più terrificante di tutto l'Inferno:la ripetizione della congiunzione "Non" e dell'avversativa "Ma" serve per sottolineare come questa foresta sia l'esatto contrario dei normali boschi, i rami sono contorti e tortuosi, non vi sono frutti sugli alberi e le foglie sono di colore scuro, al posto dei frutti ci sono spine avvelenate ("tosco" significa appunto veleno). 

L'aspetto esterno degli alberi è il riflesso della condizione delle anime imprigionate: chi commette suicidio ha infatti un animo tortuoso, contorto e la disperazione fa sì che non ci sia più nulla di "verde" (colore della speranza) nell'anima dei violenti contro se stessi.

La descrizione della selva si arricchisce poi mediante una similitudine molto calzante, Dante infatti dice:

 

Non han sì aspri sterpi nè sì folti

quelle fiere selvaggie che in odio hanno

tra Cecina e Corneto i luoghi colti.

 

Il poeta vuole affermare che la selva è così folta ed aspra da superare i luoghi più impervi della Maremma (Cecina e Corneto si trovano in Maremma):l'idea di asprezza è espressa anche dall'allitterazione frequente dei suoni "t" e "p" , che danno il lettore l'idea di tortuosità e durezza.

Successivamente il poeta prepara il lettore all'avvenimento centrale del canto: l'incontro con Pier delle Vigne,importante funzionario imperiale alla corte di Federico II di Svevia, che venne arrestato a Cremona nel 1254 per motivi mai chiariti e cadde in disgrazia presso l'imperatore.

Dante avanza l'ipotesi di una congiura di molti funzionari contro Pier delle Vigne, poichè la posizione di potere del notaio era tale da suscitare contro di lui molte invidie.

Secondo una fonte storica Pier delle vigne fu fatto accecare dall'imperatore nella fortezza di Federico II presso San Miniato:non si sa molto nemmeno sui motivi reali della morte, forse avvenuta per suicidio o anche per le conseguenze dell'accecamento.

L'incontro con Pier delle Vigne è preceduto da un famoso episodio descritto nelle seguenti terzine:

 

Però disse 'l maestro: "Se tu tronchi

qualche fraschetta d'una d'este piante

il pensier c'hai si faran tutti monchi".

Allor porsi la mano un poco avante

e colsi un ramicel da un gran pruno;

e'l tronco suo gridò:"Perchè mi schiante?

Da che fatto fu poi di sangue bruno,

ricominciò a dir:"Perchè mi scerpi?

non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, ed or siam fatti sterpi:

ben dovrebb'esser la tua man più pia,

se state fossimo anime di serpi".

 

Il maestro è ovviamente Virglio, che nell'Inferno simboleggia la ragione che deve guidare Dante in tutto il suo percorso di redenzione: Dante all'inizio, non vedendo le anime e sentendo solo i lamenti spaventosi delle Arpie, crede che i dannati si nascondino da qualche parte dietro gli alberi.

Virgilio allora lo invita a spezzare un rametto e quindi il nostro poeta con stupore e terrore si accorge di aver a che fare con qualcosa di vivo, in grado di parlare e di sanguinare per il dolore.

Occorre notare come Dante usi costantemente in tutto il canto i suoni aspri, in particolare nella triade "schiante, scerpi, sterpi": il poeta vuole utilizzare nel canto dedicato ai suicidi il cosiddetto "trobar clus" (poetare chiuso), caratterizzato da allitterazioni, suoni duri e oscurità semantica.

Dante sembra identificarsi con il destino crudele di Pier delle Vigne, infatti anche il poeta venne esiliato da Firenze e quindi la sua reputazione venne infangata; non a caso alla fine del canto vi è una breve invettiva contro Firenze (molto frequenti nell'Inferno), vista come una città divisa e costantemente in guerra, in cui prevale l'egoismo a spese dell'interesse per il bene comune.

Dopo il colloquio con Pier delle Vigne Virgilio rivolge al suicida una domanda importante, gli chiede come possa accadere che le anime si imprigionino negli alberi.

Ecco la risposta di Pier delle Vigne:

 

"Brievemente sarà risposto a voi.

Quando si parte l'anima feroce

dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta

Minòs la manda alla settima foce.

Cade in la selva, e non l'è parte scelta;

ma là dove fortuna la balestra

quivi germoglia come gran di spelta.

Surge in vermena ed in pianta silvestra:

l'Arpie, pascendo poi delle sue foglie,

fanno dolore e al dolor fenestra.

Come l'altre verrem per nostre spoglie

ma non però ch'alcuna sen rivesta;

chè non è giusto aver ciò ch'om si toglie.

Qui le trascineremo, e per la mesta

selva saranno i nostri corpi appesi,

ciascuno al prun dell'ombra sua molesta."

 

In questi versi è descritta in maniera magistrale tutta la violenza del suicidio e della conseguente pena a cui sono sottoposti i dannati.

L'anima è definita infatti con l'aggettivo "feroce", poichè decide di troncare il legame con la vita: il verbo "disvellere" indica poi l'innaturalità del suicidio, che fa violenza al naturale istinto di conservazione dell'uomo.

Le anime poi sono abbondonate a se stesse, germogliano e crescono casualmente ("là dove fortuna la balestra"), poichè Dio le ha ormai lasciate al proprio destino:le Arpie poi beccano le foglie e causano ferite da cui in continuazione scaturiscono i lamenti.

Dante poi, con un'eccezionale forza di immaginazione, descrive ciò che accadrà ai dannati dopo il giudizio universale:essi non riavranno più il loro corpo, poichè Dio rispetta il libero arbitrio dell'uomo ("non è giusto aver ciò ch'om si toglie"), ma il corpo verrà appeso per l'eternità all'albero che contiene l'anima, dando alla selva un aspetto davvero tristissimo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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13 luglio 2012 5 13 /07 /luglio /2012 11:51

La poesia "La primavera hitleriana", inserita nella raccolta "La bufera ed altro", è sicuramente una delle liriche più affascinanti di Montale e soprattutto più ricche di riferimenti storici, culturali e biografici.

L'occasione da cui nasce la poesia è l'incontro a Firenze di Mussolini con Hitler durante la primavera del 1938, precisamente nella metà di Maggio del 1938: l'alleanza tra i due dittatori viene così irrimediabilmente rafforzata e per Montale questo appare il chiaro presagio di una catastrofe globale, quale è stata appunto la 2^ guerra mondiale.

Dopo l'incontro tra i due dittatori, infatti, il fascismo si caratterizzò in senso sempre più antisemita e stipulò le leggi razziali nel Settembre del 1938:la politica razzista di Mussolini fu all'origine dell'emigrazione di Irma Brandeis (donna amata da Montale, studiosa di letteratura) verso gli Stati Uniti, poichè la studiosa era di origine ebraica.

Molte liriche della raccolta "La bufera ed altro" sono dedicate ad Irma Brandeis, che è concepita da Montale come un tramite tra cielo e terra, una specie di "donna-angelo" in grado di rimediare con la sua stessa presenza al male del mondo e di salvarlo dalla barbarie del nazifascismo.

La lirica "La primavera hitleriana", come vedremo, è piena di un simbolismo in cui ogni oggetto diventa la metafora di qualcos'altro in un continuo gioco di rimandi ed allusioni.

Ecco il testo e l'analisi della lirica.

 

                                                                           La primavera hitleriana

 

Folta la nuvola bianca delle falene impazzite

turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,

stende a terra una coltre su cui scricchia

come su zucchero il piede (l'estate imminente sprigiona

ora il gelo notturno che capiva

nelle cave segrete della stagione morta,

negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

 

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale

tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso

e pavesato di croci a uncino l'ha preso e inghiottito,

si sono chiuse le vetrine, povere

e inoffensive benchè armate anch'esse

di cannoni e giocattoli di guerra,

ha sprangato il beccaio che infiorava

di bacche il muso dei capretti uccisi,

la sagra die miti carnefici che ancora ignorano il sangue

s'è tramutata in un sozzo trescone d'ali schiantate,

di larve sulle golene, e l'acqua seguita a rodere

le sponde e più nessuno è incolpevole.

 

 

Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a san Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropo nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio…
                                      Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi
fino a che il cieco sole in te porti
si abbacini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince –
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud…
 
                                                     ANALISI DEL TESTO
 

La poesia è stata scritta nel 1939 ed è poi confluita nella raccolta "La bufera ed altro", pubblicata nel 1947. Il testo è costiuito da tre strofe di versi di diseguale misura, dall'endecasillabo a versi più lunghi, in genere di quattordici e più sillabe:le rime sono pressochè assenti,vengono sostituite da una fitta rete di assonanze e consonanze.

Vediamo ora i contenuti e i simboli presenti nelle singole strofe.

 

I strofa: La lirica si apre con un'immagine nello stesso tempo originale ed inquietante: una nuvola di farfalle notturne, che turbina attorno ai lampioni, cade a terra all'improvviso e forma a terra uno strato che scricchiola se viene calpestato, come se fosse zucchero.

Questa strana nevicata di farfalle è il segno di qualcosa di lugubre che si sta avvicinando ed infatti presagisce la visita di Hitler a Firenze nel maggio del 1938: la presenza malefica del dittatore nazista è simboleggiata da un'improvvisa ondata di gelo che fa regredire il clima verso l'inverno e causa la morte improvvisa delle farfalle ("l'estate imminente sprigiona ora il gelo notturno").

 

II strofa: La seconda strofa introduce l'immagine di Hitler visto da Montale come un messaggero dell'Inferno, che viene accolto dai suoi fedeli alleati, cioè dai fascisti che gli rendono omaggio con il consueto grido "eja, eja, alalà".

La parata in onore del Fuhrer messa in atto dai fascisti viene trasformata da Montale in un'autentica "messa nera" in onore del nuovo Lucifero:il golfo mistico era infatti, nel teatro di Wagner, lo spazio riservato all'orchestra, che per l'occasione viene illuminato e decorato di bandiere con le svastiche. Il riferimento a Wagner non è del resto casuale, visto che l'opera di questo grande musicista era molto apprezzata dai nazisti, che la strumentalizzarono in chiave nazionalista.

Per Montale tutta la popolazione è complice della catastrofe bellica che si sta inesorabilmente preparando: sono infatti chiusi i negozi (in onore di Hitler) con le vetrine dove sono esposti giocattoli da guerra, triste presagio del conflitto mondiale.

Il macellaio che fa bella mostra dei capretti col muso infiorato di bacche può anche essere visto a posteriori come il presagio dell'Olocausto ebraico causato dal nazismo e comunque evidenzia che l'intera popolazione mondiale si presta ad essere sacrificata in nome della follia di pochi.

In questo situazione nessuno è veramente immune da colpa, anche i miti carnefici (ossimoro calzante) che sono ignari della catastrofe che loro stessi contribuiscono a preparare, dal momento che sono ossequiosi verso il nazifascismo.

Il trescone delle ali schiantate fa riferimento agli insetti (falene) che cadono sulle rive dell'Arno (vedere prima strofa), falene che con la loro danza di morte sembrano presagire un evento sinistro.

 

III strofa: La strofa si apre con un interrogativo drammatico: "Tutto per nulla, dunque?": Montale qui fa riferimento al suo amore per Irma Brandeis, una donna che nella sua mente aveva addirittura il potere di salvare il mondo dal male, proprio come la "donna-angelo" degli stilnovisti.

L'invadenza del male nel mondo sembra mettere in pericolo il senso di un amore che è l'unica via di salvezza nell'orrore presente:i saluti di addio del poeta al momento della partenza di Irma per gli Stati Uniti assumono il significato di un patto indelebile di fedeltà e la partenza della donna è accompagnata da segni quasi sovrannaturali (una stella cadente che riga il cielo);  Montale rappresenta Irma come accompagnata dall'angelo Raffaele (accompagnatore di Tobia), uno dei sette angeli che portano i meriti umani davanti a Dio, anche se per il momento l'opera salvifica iniziata dalla donna sembra essere in grave pericolo, infatti tutto appare "arso e succhiato da un polline che stride come il fuoco".

La parte finale della strofa è segnata da messaggi di speranza, quasi come se l'intenso amore del poeta potesse in qualche modo cambiare in meglio le sorti della storia:la donna amata da Montale viene addirittura chiamata con il nome di Clizia, la figlia dell'Oceano amata e poi abbandonata dal Sole, che ella continua però ad amare tanto intensamente da trasformarsi in Girasole ("tu che il non mutato amor mutata serbi").

La fonte di tale riferimento è sicuramente Dante, poichè nel 1939 Gianfranco Contini curò un'edizione delle Rime dantesche:in un sonetto a Giovanni Quirini, citato da Montale in introduzione alla "Primavera hitleriana", Dante si paragona appunto a Clizia nel dichiarare il suo amore verso una "donna sdegnosa".

In questo caso, però, Montale vuole farci capire che egli considera Irma Brandeis come un tramite tra il mondo sovrannaturale e la terra, perchè il Sole è simbolo di Dio: il poeta spera quindi che Clizia, proprio come Cristo, possa sacrificarsi per il bene dell'umanità e di conseguenza il mondo possa sperimentare una nuova Pasqua ("Un'alba che domani per tutti si riaffacci") dopo la sconfitta dei mostri del nazifascismo.

La Primavera hitleriana rappresenta a mio avviso una delle più alte vette della poesia di Montale ed è espressione di una religiosità di tipo laico ma molto viva ed originale, che pervade del resto buona parte della produzione del poeta, soprattutto nelle raccolte "Le occasioni" e "La bufera ed altro".

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

 

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2 luglio 2012 1 02 /07 /luglio /2012 16:17

Michelangelo Buonarroti, oltre ad essere stato un eccezionale scultore e pittore, fu anche un poeta, anche se la sua opera risulta essere semisconosciuta ai più.

La poesia di Michelangelo, pur non raggiungendo le vette del capolavoro, è caratterizzata da una notevole forza ed originalità e riflette la personalità geniale e a volte tormentata dell'autore.

Le Rime di Michelangelo fuorno stampate postume nel 1623, per iniziativa di un nipote dell'artista (Michelangelo Buonarroti il Giovane).

Oggi sappiamo che l'autore compose i suoi primi versi sotto l'influenza delle sue letture dantesche, petrarchesche e dei poeti fiorentini di fine Quattrocento, soprattutto Lorenzo il Magnifico e Pulci.Tuttavia è nella maturità e ancor più nella vecchiaia di Michelangelo che si concentra la sua produzione poetica, tanto che solo nel 1564 l'autore fa riunire un certo numero di componimenti in vista di una pubblicazione poi mai realizzata almeno finchè egli fu in vita.

Di conseguenza la grande passione dell'artista per la poesia restò sempre un fatto privato, una specie di sfogo dell'animo, diffuso occasionalmente solo nella cerchia degli amici più intimi.

Michilengelo predilige l'uso delle forme poetiche brevi (il sonetto e soprattutto il madrigale) ed il linguaggio da lui usato è generalemente concreto e reale;a volte, però, la sua opera appare caratterizzata da un'oscurità eccessiva di linguaggio e di stile e ciò costituisce uno dei limiti più evidenti del Michelangelo poeta.

Tra le sue liriche spiccano particolarmente quelle dedicate al gentiluomo romano Tommaso de' Cavalieri e poi quelle per Vittoria Colonna, a cui l'autore era legato da una forte passione amorosa e da corrispondenza spirituale.

Molte poesie sono inoltre pervase da una grande ispirazione religiosa, resa però inquieta a causa di un opprimente senso del peccato;a queste liriche si possono anche unire quelle in cui Michelangelo riflette sulla propria concezione dell'arte e sui fondamenti teorici e morali dell'arte stessa.

Ecco alcuni esempi tratti dalle Rime

 

                                                                     O notte, o dolce tempo

                                                                     benchè nero

 

O notte, o dolce tempo, benchè nero,

con pace ogn'opra sempre'al fin assalta;

ben vede e ben intende chi t'esalta

e chi t'onor ha l'intelletto intero.

 

Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero;

chè l'umid'ombra ogni quiet'appalta,

e dall'infima parte alla più alta

in sogno spesso porti, ov'ire spero.

 

O ombra del morir, per cui si ferma

ogni miseria, a l'alma, al cor nemica,

ultimo delli afflitti e buon rimedio;

 

tu rendi sana nostra carn'inferma

rasciughi i pianti e posi ogni fatica,

e furi a chi ben vive ogn'ira e tedio.

 

Questo sonetto è a mio avviso il più bello dell'intera produzione di Michelangelo, per tematiche e stile può essere sicuramente accostato al sonetto foscoliano "Alla sera" ("Forse perchè della fatal quiete sei l'immago/a me sì cara vieni, o sera"...); la notte, come del resto la sera di Ugo Foscolo, è vista come una specie di Dea che dona agli uomini il riposo dopo la fatica e le preoccupazioni che hanno caratterizzato il giorno.

Nel sonetto si nota anche l'accostamento della notte alla morte ("O ombra del morir"), vista però dal religioso Michelangelo non come la cessazione di ogni cosa, ma come l'inizio di una vita rinnovata, vita che noi possiamo già sperimentare nel sogno:ciò differenzia la concezione di Michelangelo da quella piuttosto atea di Foscolo, che associa la morte al "nulla eterno" del sonetto "Alla sera".

Il poeta si rivolge alla notte come ad una persona, usando tutti verbi transitivi: la notte non è descritta di per sè, per quello che è, ma per le "azioni" che compie, tutte tese ad alleviare il dolore e a concedere una meritata tregua dalla fatica della vita (Es."Tu rendi sana nostra carn'inferma, rasciughi i pianti e posi ogni fatica").

Ecco invece un testo diverso, indirizzato a Vittoria Colonna e basato su un'originale meditazione sul valore dell'arte.

 

                                                                 Non ha l'ottimo artista

                                                                 alcun concetto

 

Non ha l'ottimo artista alcun concetto

ch'un marmo solo in sè non circoscriva

col suo superchio, e solo a quello arriva

la man che ubbidisce all'intelletto.

 

Il mal ch'io fuggo, e 'l ben ch'io mi prometto,

in te, donna leggiadra, altera e diva,

tal si nasconde,e perch'io più non viva,

contraria ho l'arte al disiato effetto.

 

Amor dunque non ha, nè tua beltate

o durezza o fortuna o gran disdegno,

del mio mal colpa, o mio destino o sorte;

 

se dentro del tuo cor morte e pietate

porti in un tempo, e che'il mio basso ingegno

non sappia, ardendo, trarne altro che morte.

 

Questo sonetto ha sicuramente delle basi filosofiche ed è basato sulla contrapposizione di due concetti fondamentali e solo in apparenza uguali:l'artista e l'arte.

L'artista è colui che sa rendere concrete le potenzialità degli oggetti, sa dare forma a ciò che è già presente a livello embrionale; tuttavia il poeta non riesce ad applicare la sua genialità anche all'amore, per cui la sua arte in questo è fallace ("Contraria ho l'arte al disiato effetto").Il grande artista Michelangelo, l'autore di scultore come il David e la Pietà, non è in grado di plasmare il cuore della donna amata, cuore che resta freddo come un marmo a cui l'artista non è ancor riuscito a dar vita e forma!

Il poeta sa trarre dal cuor della donna, in cui coesistono "morte e pietate", soltanto "morte", cioè sofferenza e delusione:ne consegue che il suo ingegno finisca per apparirgli come "basso".

L'ispirazione filosofica su cui il sonetto è sicuramente il neoplatonismo, che ebbe un'importanza notevole nell'Italia rinascimentale, in particolare a Firenze con Marsilio Ficino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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28 giugno 2012 4 28 /06 /giugno /2012 10:17

Andrea Zanzotto è un poeta particolarmente originale nel panorama culturale del Novecento e, se proprio si vuole catalogarlo, egli appartiene a quella che molti critici letterari (tra cui Gianfranco Contini) definiscono come "linea post-ermetica", caratterizzata dalla sperimentazione continua di diversi stili poetici.

Egli nacque a Pieve di Soligo (Treviso), si laureò in Lettere a Padova ed ha insegnato a lungo nelle scuole medie:il poeta, a parte alcuni soggiorni all'estero (in Svizzera, a Parigi e negli Stati Uniti) non ha mai abbandonato la campagna veneta, da lui considerata una formidabile fonte di ispirazione.

Le sue principali raccolte poetiche furono nell'ordine: "Dietro il paesaggio" (1951),"Elegia ed altri versi" (1954) "Vocativo" (1957),"IX Egloghe" (1962) "La beltà" (1968).

La principale caratteristica della poetica di Zanzotto è il plurilinguismo, cioè la sperimentazione, all'interno della sua opera, di diversi linguaggi e di dfferenti stili poetici:questo accade perchè l'autore ritiene che l'uomo contemporaneo sia privo di certezze e la poesia (come l'arte in generale) deve quindi rappresentare il caos della civiltà moderna; di conseguenza nelle liriche di Zanzotto entrano in contrasto termini molto colti (addirittura latinismi) con il linguaggio tecnologico e scientifico tipico della cultura contemporanea.

La prima raccolta ("Dietro il paesaggio") include i testi scritti negli anni 1940-48 e manifesta una spiccata tendenza verso il Simbolismo:il poeta vero è colui che sa vedere dietro la realtà e riconoscere l'aspetto simbolico di ogni cosa ed in questo Zanzotto è sicuramente influenzato dall'Ermetismo fiorentino.

Successivamente, però, il poeta sviluppa una sua personalissima vena artistica, che si basa sulla contaminazione tra vari linguaggi:la raccolta "Vocativo" presenta uno stile che molto spesso tende a non considerare le strutture grammaticali per esprimere l'angoscia dell'uomo contemporaneo di fronte ad un mondo che cambia in continuazione e non dà certezze.

Le liriche di Vocativo sono organizzate come se fossero rivolte a qualcuno o a qualcosa, ma l'interlocutore del poeta resta volutamente indefinito e quindi l'intero testo appare come un monologo.

Tale linea di tendenza si accentua con la raccolta "La beltà", che racchiude i testi composti negli anni Sessanta:Zanzotto esercita nei confronti della civiltà contemporanea la stessa critica operata da Montale, poichè ritiene che il dominio dei mass media porti ad una caduta dei valori etici ed ideologici e quindi anche il linguaggio poetico, che dovrebbe comunicare un messaggio moralmente forte, finisce per ridursi ad un "balbettare" (si legga l'intervista di Montale "E'ancora possibile la poesia?"), fino a giungere al vero e proprio non-senso.

Di conseguenza in un mondo che non offre alcuna verità ma solo opinioni effimere l'artista non può fare altro che adeguarsi a questo disordine e proprio per questo si esprime utilizzando linguaggi diversi e contrastanti, smantellando le strutture grammaticali e deformando le parole che ormai sono prive di un senso assoluto ed obiettivo.

Il critico Stefano Agosti ha infatti parlato per le ultime raccolte di una scissione tra significato e significante, nel senso che le parole ormai sono ridotte ad una pura successione di suoni senza alcuna pretesa di avere un significato certo ed univoco;si nota appunto un uso molto forte di prefissi e suffissi, neologismi e deformazioni.

E' importante sottolineare che Zanzotto rivaluta moltissimo l'uso del dialetto veneto nella sua opera, proprio perchè a suo avviso attraverso il dialetto i poeti possono esprimere meglio la loro creatività:il dialetto è per lui una lingua pura e genuina che, proprio perchè antica, non risente del relativismo tipico della civiltà moderna.

Ecco un esempio della contaminazione del linguaggio operata da Zanzotto.

 

                                                                                          Oltranza-oltraggio

Salti saltabecchi friggendo puro-pura

nel vuoto  spinto  outrè

ti fai più in là

intangibile-tutto sommato-

tutto sommato

tutto

sei più in là

ti vedo nel fondo della mia serachiusascura

ti identifico tra i non sic i sigh

ti disidentifico

solo no solo si solo

piena di punte immite frigida

ti fai più in là

e sprofondi e strafai in te sempre più in te

fotti il campo

decidi verso

nel tuo sprofondi

brilli feroce inconsutile nonnulla

l'esplodente l'eclatante e non si sente

nulla non si sente

no   sei saltata più in là

ricca saltabeccante    là

 

L'oltraggio

 

 

Si può benissimo notare come in questo testo le normali strutture grammaticali e logiche del linguaggio siano talmente alterate da giungere al vero e proprio non-senso.

L'intera poesia è basato su tutta una serie di ripetizioni e variazioni intorno ad un tema di fondo: la distanza (fisica e simbolica) dalla donna interlocutrice. Il concetto del "ti fai più in là" (verso 3) è presente in tutto il testo ed il poeta usa moltissimo l'allitterazione,figura retorica basata sulla ripetizione degli stessi suoni (es. esplodente/eclatante", "sprofondi/strafai").

Il senso ultimo della poesia è espresso dal titolo che, secondo una nota dell'autore, significa "cosa che va oltre il limite di sopportazione"  (con il rimando dantesco a Paradiso, XXXIII, 57).

  

 

 

 

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24 giugno 2012 7 24 /06 /giugno /2012 17:42

Carlo Betocchi fu uno dei più importanti poeti dell'Ermetismo e la sua produzione poetica attraversa quasi tutto il Novecento, partendo dai primi anni Trenta sino a giungere al 1980, quando pubblicò la sua ultima raccolta (Poesie del Sabato). Il poeta appartiene culturalmente all'area geografica toscana e fiorentina.

Betocchi fu un autore cattolico, di grande religiosità e molto vicino a Mario Luzi e a Nicola Lisi (letterati dell'area toscana):nel 1929 fondò, assieme a Nicola Lisi e Piero Bargello, la rivista di tendenza cattolica "Il Frontespizio", che poi divenne  un centro di divulgazione dell'Ermetismo.

L'autore pubblicò la sua prima raccolta poetica nel 1932 ("Realtà vince il sogno"), ma ne seguirono altre come "L'Estate di San Martino", "Un passo un altro passo", "Poesie del Sabato".

La collocazione di Betocchi nell'area ermetica appare comunque un po' forzata e determinata più che altro da aspetti biografici, soprattutto dalla grande amicizia con Mario Luzi (si veda articolo sul blog, "L'Ermetismo di Mario Luzi") che riconobbe in lui il suo maestro:in realtà la sua poesia è molto libera ed assolutamente spontanea, pur avendo in comune con gli ermetici il gusto dell'analogia (accostamento libero tra immagini).

La poesia giovanile dell'autore è dominata da una religiosità di tipo quasi francescano, un forte sentimento mistico che gli consente di sentirsi gioiosamente "creatura tra le creature" (citazione dall'autore), lo stesso sentimento del resto presente nell'Ungaretti della raccolta "L'Allegria", quando l'autore afferma di sentirsi "docile fibra dell'universo".

In alcuni testi è anche possibile individuare una certa influenza della poesia simbolista e visionaria di Rimbaud, autore che Betocchi apprezzava assai più di Stephane Mallarmè (prediletto invece da molti ermetici).

Le liriche della prima raccolta ("Realtà vince il sogno") hanno spesso un andamento "popolare" ed assai discorsivo, anche se a tratti si nota un certo preziosismo lessicale tipico degli ermetici; il critico Baldacci ha messo in luce il fatto che la poesia di Betocchi oscilla tra due tendenze molto contradditorie tra di loro anche se in equilibrio, cioè la difficoltà lessicale degli ermetici da un lato e l'apparente facilità e discorsività dall'altro.

Un altro modello spesso presente nell'opera di Betocchi è Clemente Rebora, uno scrittore appartenente al gruppo della rivista "La Voce":l'influenza di Rebora si nota sia dal punto di vista culturale (entrambi sono cattolici) sia nello stile, che in entrambi gli autori è discorsivo e in alcuni casi vicino alla prosa.

Nelle opere più tarde l'anziano Betocchi supera l'Ermetismo e si apre al confronto con le problematiche complesse della civiltà contemporanea, tuttavia rimane sempre presente una forte spirtualità di stampo cristiano.

Ecco un esempio dell'opera di Betocchi tratto dalla raccolta "L'Estate di San Martino" (1961):

 

                                                                                 Il tempo ci rapisce

                                                                                 e il cielo è solo.....

 

Il tempo ci rapisce, e il cielo è solo

anche di queste rondini che il volo

intrecciano, pericolosamente,

come chi va cercando nella mente

 

qualche nome perduto..... e il ritrovarlo

nemmeno conta, poichè ormai è già sera.

Eh sì! s'invecchia, e ritorna più vera

la vita che già fu, rosa da un tarlo.....

 

un tarlo che lo monda. E vien la sera.

E i pensieri s'intrecciano, e le rondini.

E non siamo più noi; siamo i profondi

cieli dell'esistenza, alti come intera

 

e profondissima, cupa, nel suo indaco.

 

La raccolta "L'Estate di San Martino" esce a Milano presso Mondadori nel 1961 ed esprime l'opera di un Betocchi ormai maturo.

Il testo qui presentato è una meditazione profonda e serena sulla vecchiaia, sullo sfondo paesaggistico di una natura solitaria e gremita da voli di rondini.L'intero testo è quindi un'allegoria della vecchiaia, paragonata alla sera:le rondini invece rappresentano i pensieri dell'uomo anziano,che inseguono vertiginosamente i ricordi.

Dal punto di vista metrico si notano l'uso dell'endecasillabo (raro nel Novecento), la frequenza di forti enjambement (volo/intrecciano, profondi/cieli, cercando/qualche nome, ritrovarlo/nemmeno conta) e la presenza di rime baciate (pericolosamente/mente, sera/vera):si tratta quindi, per stile e struttura, di un testo molto tradizionale.

 

 

 

 

 

 

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7 giugno 2012 4 07 /06 /giugno /2012 12:50

Alda Merini può essere considerata una delle più grandi poetesse e scrittrici del Novecento e la sua produzione si caratterizza per uno stile limpido e nello stesso tempo incisivo, con cui l'autrice descrive perfettamente il suo mondo interiore.

Alda Merini nasce a Milano nel 1931 e fin dall'adolescenza manifesta uno spiccato talento poetico ed una passione molto intensa per la musica; la sua esistenza fu purtroppo tormentata da una serie di turbe psicologiche che la costrinsero a lunghi periodi di ricovero in case di cura, tuttavia la poetessa riuscì a trasformare il suo personale disagio in una straordinaria fonte di ispirazione. 

Alda Merini venne inoltre circondata dalla protezione e dalla stima di molti letterati, tra cui Maria Corti e Giorgio Manganelli:la prima raccolta poetica, dal titolo "La presenza di Orfeo", venne pubblicata nel 1953 a Milano.

La poesia di Merini è istintiva, quasi ingenua nella sua spontaneità, ha qualità visionarie ed orfiche: l'autrice infatti è molto vicino allo stile letterario tipico di Dino Campana e procede per accostamenti di immagini apparentemente senza alcun collegamento logico.

A questo proposito il critico Giorgio Manganelli ha definito lo stile della poetessa come dominato da "una fantastica irruenza", ma tutto ciò si unisce anche ad una spiccata tendenza narrativa: l'esperienza della Merini può essere accostata a quella dei letterati del primo Novecento (tra cui il poeta Dino Campana) riuniti attorno alla rivista "La voce", che crearono uno stile particolare definito "frammento lirico" (un misto di poesia e di prosa).

Nel 1988 Merini raccolse tutte le sue poesie in una grande Antologia chiamata "Testamento", in cui confluiscono molti testi presenti nella precedente raccolta dal titolo "La Terra Santa", titolo che indica la tormentata ricerca dell'autrice per raggiungere una condizione di serenità, proprio come gli ebrei che dopo il passaggio del Mar Rosso giungono finalmente nella tanto sospirata Terra Promessa.

Ecco alcuni importanti esempi di testi poetici tratti dalle raccolte di Alda Merini.

 

                                                                           A tutte le donne

 

Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso
sei un granello di colpa
anche agli occhi di Dio
malgrado le tue sante guerre
per l'emancipazione.
Spaccarono la tua bellezza
e rimane uno scheletro d'amore
che però grida ancora vendetta
e soltanto tu riesci
ancora a piangere,
poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,
poi ti volti e non sai ancora dire
e taci meravigliata
e allora diventi grande come la terra.



Questo testo, com'è evidente, è una specie di inno alla donna, vista come una creatura fragile ma nello stesso tempo forte, la cui forza è appunto rappresentata dalla capacità di amare nonostante le avversità.

In quest'altra poesia, invece, Alda Merini descrive l'esperienza della propria sofferenza interiore, che può essere equiparata al "male di vivere" di Montale.

 

                                                                             Ieri ho sofferto il dolore

Ieri ho sofferto il dolore,
non sapevo che avesse una faccia sanguigna,     
le labbra di metallo dure,
una mancanza netta d'orizzonti.
Il dolore è senza domani,
è un muso di cavallo che blocca
i garretti possenti,
ma ieri sono caduta in basso,
le mie labbra si sono chiuse
e lo spavento è entrato nel mio petto
con un sibilo fondo
e le fontane hanno cessato di fiorire,
la loro tenera acqua
era soltanto un mare di dolore
in cui naufragavo dormendo,
ma anche allora avevo paura
degli angeli eterni.
Ma se sono così dolci e costanti,
perchè l'immobilità mi fa terrore?

 

( Da "La Terra Santa")

 

E' evidente in questa poesia come il dolore sia descritto come una presenza fisica, simboleggiata dal "muso di cavallo che blocca i garretti possenti":questo parallelismo ricorda benissimo il "male di vivere" montaliano, che si concretizza anch'esso in immagini quali "il rivo strozzato che gorgoglia, "il cavallo stramazzato".

Fa riflettere l'espressione secondo cui il dolore è "senza domani": infatti per la Merini, come per tante persone che soffrono, il dolore è un'esperienza che sembra non avere mai fine, fa perdere la speranza e quindi impedisce all'uomo di vedere al di là del momento presente e di superare l'angoscia.

L'immobilità dell'ultimo verso è una metafora della morte, che fa terrore alla poetessa ma nello stesso tempo la attrae, perchè rappresenta un'estrema via d'uscita dalla continua sofferenza.

E' importante sottolineare che la Merini manifesta in molte sue poesie una profonda religiosità, com'è evidente nel testo seguente.

 

                                                                               La carne degli angeli

 

 

 



Un punto è l'embrione
un secolo di vita
che ascolta l'universo
la memoria del mondo
fin dalla creazione.
L'uomo che nascerà
è un'eco del Signore
e sente palpitare in sé
tutte le stelle.



Questa lirica è appunto un inno all'uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio, un essere unico ed irripetibile che racchiude in sè "un secolo di vita", proprio perchè prima di nascere era già nella mente del Creatore e quindi è come se avesse dentro di sè tutte le "stelle".









 

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3 giugno 2012 7 03 /06 /giugno /2012 11:21

La poesia "A se stesso" di Giacomo Leopardi rappresenta una delle massime espressioni della filosofia dell'autore, fondata sull'idea che l'uomo sia in balia di un potere nascosto ("la natura matrigna") che lo danneggia e gli impedisce di raggiungere la felicità, sommo bene a cui tutti naturalmente aspiriamo.

E' opportuno ricordare che per Leopardi la sofferenza è un formidabile strumento conoscitivo, perchè consente di sperimentare la dura realtà del mondo e di far crollare le illusioni; lo studioso Sebastiano Timpanaro ritiene ad esempio che il pessimismo cosmico leopardiano sia dovuto in gran parte all'esperienza individuale della malattia fisica (il morbo di Pott di cui egli soffriva), poichè il dolore fisico fa prendere coscienza della crudeltà della natura.

La lirica "A se stesso" fa parte del cosiddetto ciclo di Aspasia, composto da cinque poesie: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso e Aspasia.

Il tema dominante di tutte queste liriche è l'amore non corrisposto per Fanny Targioni Tozzetti, conosciuta da Leopardi durante il soggiorno fiorentino:l'amore è definito dal poeta "l'inganno estremo", perchè dà all'individuo un'illusione fortissima di felicità, seguita spesso da amare delusioni.

La successione delle cinque poesie descrive quindi la vicenda di un amore tormentato, che all'inizio riempie completamente la mente e il cuore del poeta ("Il pensiero dominante") ed infine lo fa precipitare nella disperazione più tetra.

La poesia "A se stesso" è databile attorno al Giugno del 1833 ed il nucleo ispiratore della lirica è l'inno ad Arimane, scritto da Leopardi durante il soggiorno fiorentino: nella religione pagana di Zoroastro (religione dell'Iran preislamico) Arimane è il dio del male, una foza malefica che si oppone all'uomo, lo illude e lo fa soffrire.

Per il poeta Arimane è la "natura matrigna", definita come "il brutto poter che ascoso a comun danno impera": la natura infatti crea gli uomini ma poi senza alcuna pietà li distrugge, dà gioie e dolori senza alcuna apparente legge di giustizia e può distruggere in un attimo ciò che si è faticosamente costruito in un'intera vita. 

La lirica "A se stesso" rappresenta, per giudizio unanime della critica, il componimento migliore e meglio riuscito di tutto il ciclo di Aspasia, anche perchè il tema principale non è solo un amore infelice, perchè il testo rappresetna una specie di riassunto del pessimismo cosmico dell'autore.

Ecco il componimento

 

                                                                                    A se stesso

 

Or poserai per sempre,

stanco mio cor.Perì l'inganno estremo

ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,

in noi di cari inganni,

non che la speme, il desiderio è spento.

Posa per sempre. Assai

palpitasti. Non val cosa nessuna

i moti tuoi, nè di sospiri è degna

la terra. Amaro e noia

la vita, altro mai nulla, e fango è il mondo.

T'acquieta ormai. Dispera

l'ultima volta. Al gener nostro il fato

non donò che il morire. Omai disprezza

te, la natura, il brutto

poter che, ascoso, a comun danno impera

e l'infinità vanità del tutto.

 

Questo componimento è stato oggetto di un'attenta analisi da parte di Angelo Monteverdi, che ha nesso in luce come l'intera poesia sia in realtà articolata in tre periodi cinque, cinque e sei versi.

Lo schema individuato dal Monteverdi riflette lo sviluppo della riflessione leopardiana ed ha come tema fondamentale la disperazione del Leopardi dovuta sia alla delusione amorosa sia alla presa di coscienza dell'inutilità della vita.

Ecco l'articolazione e la relativa parafrasi.

 

I parte (versi 1-5). Posa, mio cuore. Perito ormai l'inganno estremo ( l'inganno d'amore), chiusa è la via ad ogni speranza, a ogni desiderio.

 

II parte (versi 6-10). Posa, mio cuore. Dopo tanto palpitare, è chiaro che nulla al mondo vale i palpiti di un cuore e che la vita non offre se non duolo e tedio.

 

III parte (versi 11-16). Posa, mio cuore. Unico dono del destino all'uomo è la morte. La vita non gli può suggerire che disprezzo:per sè, per la natura, per il male onnipossente e per l'infinità vanità del tutto.

E' importante sottolineare che tutte le tre parti iniziano sempre con un settenario e terminano con un endecasillabo, che ha la funzione di sottolineare i concetti fondamentali della poesia.

 

Un altro dato assai significativo, messo in luce dal Monteverdi e da molti altri studiosi, è l'uso di una sintassi frammentata, con un continuo uso dell'enjambement:la separazione tra soggetto e verbo, tra verbo e complemento crea una grande musicalità ed oltretutto rende bene il tormento interiore del Leopardi e la sua sofferenza.

Questa lirica rappresenta il momento più drammatico del pessimismo leopardiano, successivamente il poeta riscoprì la fede nella dignità dell'uomo che si oppone alla forza crudele della natura ed esprimerà tale concetto nell'ultima grande lirica, la Ginestra.

 

 

 

 

 

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  • : In questo blog verrà presentata un'antologia delle poesie più significative della letteratura italiana e straniera, con notizie sulla vita degli autori e sulla loro concezione poetica ed esistenziale.
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